sabato 23 novembre 2013

ELEMENTARE, SHERLOCK HOLMES!


I gialli moderni non fanno per me, sicuramente non i thriller, non i polizieschi, non le indagini superscientifiche che fanno affidamento alla più moderna tecnologia. Perché? Perché è difficile capire fino a che punto sia attendibile quello che mi dicono e perché io non sono in grado di contestarle. Mentre con Sherlock Holmes tutto è semplice, elementare, naturale. Piacevole alla lettura e avvincente, senza effetti speciali. Semplicemente la mente umana arriva per deduzione, attraverso l'osservazione. Se Sherlock Holmes è un personaggio delineato benissimo (cattura inevitabilmente ora come allora), nemmeno Watson mi sembra poco così caratterizzato e il fatto che sia lui il narratore, quello che decide di raccogliere e rendere giustizia all'intelligenza del compare, ce lo rende simpatica a priori. Una struttura alla base che ammetto mi colpisce non poco e mi stimola alla narrazione. 


Uno studio in rosso (1887). Per ora il più semplice, scorrevole e avvincente. La seconda parte che spezza il ritmo che è stato così perfetto nella prima parte. Di sicuro c'era bisogno di spiegare cosa fosse successo fino a quel momento, ma la maniera lo fa è dopo tutto utile alla storia. Basta resistere. E non c'è solo Londra, qui c'è anche l'America e le restrizioni religiose. Il colpevole è poi colpevole fin quando? Ha subito un torto e la vendetta lo trascina per mari e monti. Quindi scatta anche l'empatia nei suoi confronti. C'è poi una giustizia divina che agisce prima della giustizia umana e che darà la sua colpa all'assassino e pare sia questo il messaggio finale su cui dobbiamo meditare. 

Il segno dei quattro (1889) meno efficace del primo ma non meno valido. La storia è più complicata, gli elementi un po' più fantastici (anche se tutto sommato non improbabili) e lo spiegone di quanto accaduto ci viene raccontato direttamente non dall'assassino (che in verità è in fondo al Tamigi ormai) ma da chi ha architettato il recupero del tesoro indiano. Qui appunto da Londra si arriva in India e ogni tassello si mette a posto. Ad arricchire il tutto è la storia d'amore tra Watson e la donna che contatta Sherlock. Da non dimenticare che Sherlock aiuta la polizia, ma può tranquillamente starsene in disparte, solitamente per osservare l'incapacità degli investigatori di Scotland Yard e sorriderci sopra, ma anche per essere giudici inflessibili di quanto accaduto. Ancora una volta l'antagonista è dettato dalla vendetta (e un po'dal rispetto degli accordi presi) e ancora una volta è difficile affibbiargli tutte le colpe, forse solo alcune. Si finisce insomma, ad avere simpatia, anche se non troppo anche nei suoi confronti.

Il mastino di Baskerville (1901). Quello di sicuro con più tinte horror e di fantasmi e comincia con una maledizione. Cosa può affascinare meno? Però Sherlock Holmes ci ha abituati a risolvere tutti i casi e il cattivo è lì dietro l'angolo (oltre il cancello). In realtà per buona parte del romanza si ha la sensazione che Holmes non ci sia (e difatti Watson sempre lavorare da solo) e solo ad un certo punto (sono riuscito a prevederlo) è arrivato mentre lavorava in maniera parallela al suo amico. Viaggi esotici stavolta non ne registro, a parte questo tenuta dei Baskerville che basta e avanza come ambientazione per la paura che porta.

Sono successivamente passata ai racconti, poiché dopo tre romanzi ho sentito la necessità di avere indizi, prove e risoluzioni in tempi più brevi. Dei racconti ho un bel ricordo di tutti, da Scandalo in Boemia a Il problema finale. Forse alla fine sono più efficaci di racconti, ma solo il tempo potrà dirlo davvero. La figura di Moriarty che evidentemente serviva necessariamente all'autore per mettere a confronto Sherlock un nemico invincibile. A me non ha entusiasmato, a dire il vero, è artificioso pensare che esista sempre un complotto ben organizzato dietro tutto.

L'ultimo romanzo letto (e se non ho capito male altri non ce ne sono) è La valle della Paura (1915) è un esempio della presenza di Moriarty e di come dopo tante peripezie alla fine vince lui. Ma a parte tutto questo, la storia ha la stessa caratteristica dei precedenti romanzi, cioè una seconda parte che spiega tutto quello che è accaduto prima, un romanzo nel romanzo che non ha niente a che fare con Sherlock Holmes, se non quando i protagonisti sono gli stessi che incontra in Inghilterra il nostro investigatore autonomo preferito. Sì, perché anche questa volta si ambienta in America, vicino a qualche miniera e soprattutto dentro una loggia di uomini liberi che spiega molto bene come funzionavano (o funzionano?) queste cose. Il colpo finale dell'identità dell'uomo libero è stata micidiale.

Ad ogni modo la cosa più interessante, oltre al fatto che Sherlock lavora in autonomia su richiesta della Polizia Inglese è che il narratore di tutto è Watson e che il suo obiettivo è quello di rendere giustizia alla bravura del suo amico. Quest'idea mi piace moltissimo. Chissà perché.